Akim, Ashla, Rebeck, Rui, Joel, Susy, Bryan, Francesco, Rosa.
Sono persone.
Sono maschi e donne che nascono
perché nascere significa vivere, perché nascere significa esserci, perché
nascere significa essere cittadino della propria terra.
Nascere in un terra significa
segnare quella terra col primo respiro, a gattoni sino ai primi passi, con i
primi suoni che poi divengono parole.
Nascere in una terra significa
sentire il profumo di quella terra, quel profumo che permane dentro per una
vita intera.
Nascere in una terra significa
viverne i colori, quei colori che rimangono negli occhi per un’esistenza.
Nascere in una terra significa
essere parte di quella terra perché c’è un cordone ombelicale che lega: papà,
mamme, fratelli, amici e, forse, parenti.
Si nasce in una terra con
l’orgoglio di esser parte di quella terra perché la si sente dentro, perché si
è dentro quella terra.
Si nasce in una terra col diritto
di viverci e di viverla.
Si nasce in una terra per amore e
non si può non amare quella terra.
Si nasce e si cresce
nell’orgoglio di un’appartenenza territoriale, di un’identità.
Akim, Ashla, Rebeck, Rui, Joel,
Susy, Bryan, Francesco, Rosa.
Sono tra quelle persone che
lasciano la propria terra perché patiscono il bisogno di sopravvivere,
nonostante l’impegno e le competenze.
Sono tra quelle persone che
rincorrono nuove terre nella speranza di ritrovarsi e ritrovare, un giorno, la
loro terra.
Sono tra quelle persone che
emigrano tra paure e lacrime ma col sogno della speranza.
Lasciano tutto ciò che di più
bello vivono.
Sono padri, madri, figli e
figlie.
Sono generazioni.
Eccola la nuova terra: lingue
diverse, stili di vita differenti, culture nuove, leggi da rispettare e da
conoscere.
Inizia la ricerca spasmodica di
un impiego in una torre di babele dove capirsi e capire, inizialmente, è quasi
impossibile.
Eppure, la forza della
disperazione diviene quel coraggio che è l’entusiasmo di crearsi quel mondo che
la propria terra non ha accolto.
E’ uno scorrere di disagi,
difficoltà, forse, anche soprusi.
Le orecchie ascoltano migliaia di
parole come se non ne avessero mai sentita una.
Gli occhi sbirciano luoghi come
se non avessero mai visto.
Le mani e le gambe cercano.
Si cerca un’identità.
Si cerca l’identità perduta.
Alcuni riescono, nonostante gli ostacoli,
a integrarsi nel nuovo mondo, altri si perdono lungo la via, sprofondando nella
disperazione.
Spirito di adattamento, si dice.
Forse è vero o forse non ha nulla
di vero.
L’unica certezza è riuscire a
sopravvivere in una terra sconosciuta.
Allora, si abbraccia ogni
sorriso, ogni minima disponibilità, ogni tenue cordialità.
Si cerca di ritrovare in ogni
scorcio quell’angolo della propria città, del proprio quartiere, della propria
strada perché mancano ma bisogna, comunque, reagire.
Si girovaga in lungo e largo come
trottole, come se non si avesse una meta, come se non si conoscesse la strada
di casa.
Con le lacrime strette nei pugni,
si respira a fatica.
Il tempo diviene rassegnazione e
ci si adatta.
Akim, Ashla, Rebeck, Rui, Joel,
Susy, Bryan, Francesco, Rosa.
Alcuni divengono “cittadini”
della nuova terra, altri “res nullius” cioè “cose di nessuno”.
Si cerca di conversare col
collega di lavoro, si cerca di sorridere al compagno di banco, si cerca.
Nascono sentimenti, si perdono
emozioni, si vivono vite.
Si vive altrove nel convincimento
sia casa propria.
Ci si affeziona anche.
In fondo, la nuova terra è ciò
che rimane di se stessi.
Si inizia a sorridere.
Ogni alba e ogni tramonto segnano
i giorni perduti da guadagnare.
Si poggia la testa al finestrino
del bus o al sostegno della metro o, ancora, si guarda nel retrovisore del
taxi: tutto sembra passare.
Rimane la fierezza di essere
individuo, persona.
Rimane l’orgoglio di se stessi e
la voglia incessante di riuscire pur di privarsi.
Rimane che, seppur non si è
rimasti nella propria terra, comunque ci si è fermati in un’altra terra.
Akim, Ashla, Rebeck, Rui, Joel,
Susy, Bryan, Francesco, Rosa.
Sono cresciuti, si sono radicati,
si sono anche sposati.
Alcuni hanno dato figli alla
nuova dimensione.
Hanno perso una patria ma hanno
trovato una terra.
Vivono col sorriso della
quotidianità perché si sono riappropriati della dignità.
Ci sono. Esistono.
Contribuiscono.
Il viaggio della speranza, le
valigie piene di nostalgia, la tristezza dei primi tempi diventano ricordi.
Chi si trascina, chi cammina, chi
si barcamena, chi è claudicante.
Chi corre, chi si ferma e chi
riparte.
Akim, Ashla, Rebeck, Rui, Joel,
Susy, Bryan, Francesco, Rosa.
Finalmente, una casa, seppur, a
volte, calda e, a volte, fredda.
Finalmente, una finestra dalla
quale scorgere un orizzonte.
Finalmente, una porta dalla quale
veder rientrare i propri cari.
Finalmente, del pane.
Ma a volte, basta un giorno per
tornare a ciò che è stato.
Basta un giorno perché la crisi
attanaglia, perché le leggi sull’emigrazione cambiano, perché l’intolleranza
non si placa, perché la solidarietà cessa, perché ci sono vite che sono meno
vite e vite che sono più vite.
Ci si sveglia sudati, arrotolati
nelle coperte, con gli occhi sbarrati.
Ci si sveglia perché si deve
tornare.
Ma tornare dove?
Quando è una nuova terra ad
accogliere la dignità, quando è una nuova terra a contribuire a un minimo di serenità, quando è una nuova terra
a regalare un sorriso non si sa dove tornare perché in quella terra ci sono i
primi mattoni, gli abbracci della speranza, i sacrifici che divengono
gratificazioni, i primi passi dei figli, la tavola intorno alla quale si è
cresciuti tra sorrisi e lacrime, ci sono i giochi, le amicizie, c’è tutto quel
mondo che prima non c’era.
Allora dove tornare?
(Copyright 2014)
Nessun commento:
Posta un commento