È giusto che i
professori universitari pretendano la conoscenza della lingua italiana
da studenti propensi a conseguire un titolo
accademico-universitario tra i più prestigiosi, se non il più prestigioso,
a livello nazionale.
È ragionevole esigere che un laureando conosca la
lingua ufficiale della Repubblica in nome della quale viene conferito il
titolo di studio.
È coerente che dei professori accademici si
inaspriscano e scrivano, addirittura, al Parlamento e al Governo per
esprimere il loro rammarico e la loro preoccupazione per le sorti della
lingua italiana, "precariamente" conosciuta da futuri dottori
della Repubblica.
È giusto che ogni cittadino, soprattutto se
orientato a conseguire un titolo specializzante e professionalizzante,
abbia contezza delle regole della lingua italiana.
Però, credo sia, altrettanto, giusto che gli stessi
professori - lamentando, con legittima e umana premura, la
"scarsa conoscenza" della lingua suddetta, quale monito a migliorare
il patrimonio umano/culturale dei futuri laureati italiani - siano,
altrettanto, premurosi nel riconoscere la "scarsità" che tante
e nuove facoltà offrono, a titolo conseguito, sul mercato del lavoro.
Si vuol dire: mai una riflessione è stata approntata, con tal piglio, contro le facoltà
"sterili" che - a fronte di tante cattedre funzionali alla "pedagogia" delle stesse facoltà - non offrono alcuna prospettiva occupazionale a
titolo conseguito (se non agli stessi professori!).
Eppure, anche
questa è una verità che tanti altri studenti - conoscitori della lingua
italiana , laureandosi tempestivamente e a pieni voti - soffrono
amaramente, pur avendo “seguito e reso” nella lingua ufficiale dello
stato quanto appreso dai professori titolari di cattedre in facoltà,
appunto, prive di risvolto occupazionale a titolo conseguito.
Allora, è pur
"giusto" capire il verso "giusto" per migliorare
veramente.
Una lingua è
(anche) coscienza.
(Copyright2017)
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