A tutti i popoli sofferenti e soggiogati (menzionati alcuni solo per brevità).
Una strada di nero catrame o, forse, sterrata dalla guerra.
Un cielo azzurro o, forse, grigio di fumo d'armi.
Un semaforo, a penzoloni, che segna il verde e il rosso; l'arancione e' un foro di bazooka.
Un negozio all'angolo che sa di fame.
Un gatto grigio arruffato e un cane secco.
Una pietra che si ferma ai piedi di un bambino.
Due occhi abituati all'angoscia delle "imboscate", così come al lancio di un missile o di una granata.
Due braccia esili e due gambe deboli.
Ai piedi un pezzo di suola colorata.
L'abitudine non è più preoccupazione ma, semplice e forzata, convivenza.
E' un bambino che percorre la solita strada per raggiungere casa dei nonni o, forse, ritrovarsi con gli amici.
Si china per prendere la pietra e riporla in tasca; mentre alza gli occhi, anzi gli occhioni, esplodono colpi di mortaio a raffica.
Sventrato.
Forse, restano solo le pupille che riflettono il cielo.
Quel bambino palestinese o israeliano, senegalese o cubano, russo o ucraino, libanese o afgano, venezuelano o siriano, turco o coreano, aveva già percorso quella strada e aveva più volte raccolto quella pietra per portarla a casa e restituirla alla terra attraverso un fosso.
Sapeva che le pietre appartengono alla terra e non agli uomini ma sapeva pure che quelle pietre avevano sfregiato altri bambini mentre uscivano da scuola o passeggiavano per strada.
Ecco, perché aveva deciso di seppellire ogni pietra.
(Copyright 2014)
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