Una bambola
di stoffa, cucita artigianalmente; una bambola la cui identità non è ben
visibile, seppur sia comprensibile si tratti di una bambola perché si
distinguono la testa dal corpo e i capelli dal viso.
Una bambola
rattoppata qua e là, ricavata da ritagli di stoffe - o meglio - da “pezze”
multicolori; eppure, neanche i colori si distinguono facilmente perché imbrattata
di fango e, comunque, è così tanto “spremuta” tra le mani che sembra sporca, o,
forse, è sporca.
Gli occhi
delle bambine gioiscono nel vedere quel cumulo di stoffa che è la loro bambola:
la tengono stretta al petto ancora ossuto e il loro volto ingenuo ne diventa
l’espressività.
Quelle
bambole sono la serenità di quella bambina, di quell’altra e di quell’altra
ancora: sono uno sprazzo di colore tra il fango della fame e della sete.
Quelle
bambole, però, sono anche la coscienza che quelle bambine sono ormai cresciute
e sanno tenere una bambola stretta al “grembo”.
E’ l’ora.
Smaniak
viene raggiunta dalla mamma mentre corre e rincorre le altre bambole, tenute da
quelle bimbe come lei, scure quanto il fango ma sorridenti quanto l’amore di
poter avere una bambola.
Si, una
bambola.
Ora è un
cerchio, ora è una fila, ora è un saltello, ora sembra un ballo: la piazzetta
del villaggio sembra invasa da farfalle mentre il fango schizza, accarezzando
il volto della leggiadria.
Ora Smaniak
con una mano stringe la bambola al petto e con l’altra stringe la mano
dell’altra bimba; ballano, sembrano anche intonare un canto, volano insieme
mentre il vento ne accarezza i capelli spettinati.
Smaniak
viene afferrata per un braccio dalla mamma, si gira e i suoi “occhietti” si
riflettono negli “occhioni” materni: quegli occhietti lucidi sono la voglia di
giocare “ancora”, di ballare “ancora”, di poter guardare “ancora” quella
bambola.
Smaniak
tiene stretta la mano dell’altra bimba, come fossero incollate, come fosse la
sua àncora, come volesse che quella bimba - come la sua bambola - le facesse
coraggio ma la mano di
Smaniak libera la mano dell’altra bambina: si guardano, si fissano, si dicono.
E’ un
istante, un fermo immagine: Smaniak stringe in una mano la bambola e nell’altra
una mano bambina.
Ormai è di
spalle, dinanzi a lei l’imponenza della mamma e un gruppetto di “omoni” che hanno
un volto diverso dalle bambole ma non solo il volto, anche le mani.
Smaniak
sente quelle mani ruvide mentre la mamma annuisce con un cenno del capo;
Smaniak stringe forte a sé quella bambola, con tutte le forze, con tutte le
energie, con tutta l’anima.
Ora la mamma sta lavando quella bimba, quella figlia, l’asciuga con un panno ruvido come le mani di quell’”omone” e
la veste di brillantini; sembra il luccichio di quelle stelle che Smaniak ama
guardare – stesa a terra - con la sua bambola, sembra la luce di quella luna
che Smaniak sembra voglia raggiungere con gli occhi aperti come due finestre.
Intanto, la
bambola è buttata lì - per terra - ma Smaniak non la perde mai di vista, la
cerca con lo sguardo, gira il capo, rende gli occhi quasi “strabici”; mentre la
mamma le passa degli strani colori sul viso (sembrano erbe), Smaniak immagina
di poter allungare il braccio per raggiungere quel cumulo di stoffe, quei
colori che sono il suo sorriso.
Uno sguardo
mamma/figlia;
uno sguardo
mamma/”omone”;
uno sguardo
figlia/bambola.
Quella
bambola ha i colori di quelle mani che la stringevano forte al petto;
quella
bambola ha gli occhi, il naso, le orecchie, di quella bimba che la riparava;
quella
bambola, forse...
Smaniak è
pronta.
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