venerdì 24 agosto 2012

Saamiya Yusuf Omar di Antonio Belsito



- 08.08.2008 ore 20.08 – Pechino
Il cielo è illuminato da luci e colori, gli stessi colori che ritornano nell’emblema raffigurante cinque cerchi concatenati; tali cerchi appaiono in un susseguirsi di bandiere dallo sfondo bianco che, accarezzati da un soffio di vento, sembrano rischiarare il buio della città.
Sventolano le bandiere così come sventola l’orgoglio di una popolazione in cerca di libertà, o meglio, di una popolazione vogliosa di suggellare la libertà di essere propria degli atleti che, gli uni dopo gli altri, sfilano nello stadio Olimpico, preceduti dalla fierezza dell’alfiere/portabandiera.
Sventolano le bandiere del mondo, in essi si riflette il sorriso di etnie differenti, di tradizioni diverse, di ideologie varie, di nazionalità animate.
Sono popoli di ogni dove; i caratteri somatici delineano i contorni dell’emozione e, nella diversità, ogni atleta è portatore di un cuore che spinge gambe, braccia, muove la testa e bagna gli occhi.
Il mondo acclama gli atleti e gli atleti acclamano il mondo nell’unione pacifica dei giochi olimpici.
Anche nell’antica Grecia – che ne ha dato i natali – lo svolgimento dei giochi olimpici imponeva la c.d. tregua olimpica, così venivano sospese le guerre in tutta la nazione; nel XXI secolo le guerre perdurano ancora ma, forse, non vengono sospese perché, in fondo, - dicono - sono solo dei giochi.
Eppure negli occhi di quegli atleti è raffigurata la vita che brilla come brillano, in cielo, le stelle;
eppure nelle braccia di quegli atleti scorre la forza di vita quanto forte è la voglia di stare al mondo;
eppure nelle gambe di quegli atleti scorre la velocità quanto veloce è la voglia di superare gli ostacoli;
eppure nell’altezza di quegli atleti rinviene l’imponenza dell’umanità, l’altezza dell’anima, l’universalità dell’esistenza.
Citius, altius, fortius” ovvero “più veloce, più alto, più forte” è il motto dei giochi olimpici ma è anche quella folata di vento che muove le bandiere e quello spiraglio di luce che fa del cielo gli occhi del mondo.
La bandiera olimpica sovrasta tutti, ricordando che in quei colori sta tutto il mondo e in quell’intreccio di anelli vive l’universalità dello spirito olimpico.
Tutto è perfetto o sembra perfetto: la Cina - che di “dittatura” è carattere - sembra volerlo dimenticare ma, ancor più, sembra voler essere un paese come tutti, un paese come gli altri, per ritrovare in quei giochi la libertà “smarrita” nel tempo.
E, allora, ecco che non è casuale la coincidenza dell’anno, dell’ora e della data di apertura dei giochi e non è casuale l’animazione (danze, canti e coreografie) curata nei minimi dettagli, suggestiva, colorata, scoppiettante, a voler ripercorrere la storia di un paese che vuole abbracciare e accogliere gli altri in quella libertà che dovrebbe essere suggellata da quei cinque cerchi concentrici in evidenza sul panno bianco della speranza.
E, allora, ecco che sgorgano i sorrisi..
Lasciate che siano i vostri giochi” ribadisce Jaques Rogge – presidente CIO - nel discorso di apertura, sottolinenando che i giochi olimpici onorano gli atleti; si sente il profumo del mondo, aleggia l’umanità, finalmente tutti, sembrano, sognare assieme.
I giochi sono aperti” - pronuncia Hu Jintao -   mentre l’inno olimpico accompagna la bandiera dei giochi issata in alto con dedizione; sembra che il cuore di tutti si stia dirigendo verso il cielo, quel cielo che ci ricorda che siamo tutti sulla terra e tutti esistiamo (o dovremmo).
Giunta all’apice la bandiera, gli alfieri di tutti i paesi e i giudici prestano giuramento olimpico, sotto l’egida della stessa, a voler suggellare la lealtà e il rispetto.
Un colpo di calore segna l’accensione del braciere; l’ultimo tedoforo ha portato con se le orme degli altri che lo hanno preceduto nel lungo percorso da Olimpia, sede originaria degli stessi giochi.
Il bianco in volo verso le stelle ha la forma delle colombe, liberate in segno di pace, quella pace che i giochi dovrebbero garantire.   
Finalmente è Olimpiade.
In quel luccichio perlato, ove i sogni sembrano divenire realtà, vive lo sguardo di una giovane atleta somala, Saamiya Yusuf Omar, e in quello sguardo vive la speranza di una nazione.
Uno sguardo timido che cerca di celarsi tra gli altri, sorpreso dalla luce, anzi, da quelle luci pirotecniche che sovrastano lo stadio, quasi spegnendo le stelle, come fossero la forza dell’umanità.
Una fisionomia che porta orgogliosa le bellezze della terra somala, felice di poter ritrovare un mondo - quel mondo indicato dalle colombe bianche in volo -, ma schiva, schiva come la sua terra, una terra più volte conquistata e abbandonata, liberata e occupata, amata e odiata ma anche “violentata”.
Eppure, Saamiya è lì, orgogliosa.
Ai nastri di partenza, specialità 200 metri, porta il numero 2895 che la contraddistingue come “corridore” e tiene incollata la pettorina recante la nazionalità; una fascia bianca le cinge la fronte, quasi a volerne contenere i sacrifici, affinchè i sudori non vadano dispersi.
In Somalia, Saamiya si allena tra strade polverose e sterrate, tra le grida della disperazione e la morte come consuetudine, tra la fame e gli occhi spenti, tra gli umili e i prepotenti.
Ma, Saamiya, non cede, non demorde, anzi, proprio quelle “brutture” divengono il suo coraggio, il coraggio di correre per la vita, per la dignità dell’esistenza, per conquistare l’amore.
Proprio l’amore diviene l’intensità dello scatto, stacca i piedi da terra, pronta a volare nel suo sogno, nel sogno di una nazione, e inizia a correre.
Corre Saamiya, corre con tutte le forze residue, corre con il profumo della sua nazione, con la polvere delle strade sterrate negli occhi, con la memoria di quei bimbi moribondi ai margini di quelle strade e con la forza delle donne segnate dalla violenza.
Corre Saamiya  con il ricordo veloce del dolore e della sofferenza.
La sua magrezza accompagna gli sforzi sovrumani, il suo sguardo - teso dalla determinazione muscolare - è la sua terra, la mandibola stretta segna il ritmo dei sacrifici.
Corre Saamiya, corre con tutta se stessa, senza disimpegnarsi un istante.
Corre Saamiya, anche se comprende di essere l’ultima, “staccata” qualche secondo dal gruppo, sola in quella solitudine delle strade sterrate che ne hanno accolto i sudori.
Corre Saamiya, “alta” tra gli altri.
Arriva sola al traguardo come sola era giunta ai giochi;
arriva sola al traguardo, staccata dal gruppo delle altre atlete;
arriva sola al traguardo con i secondi di ritardo che sono l’orgoglio di aver corso “citius, altius, fortius”.
Arriva sola al traguardo, mentre i media dimenticano il suo sguardo.
Ma arriva.

- Agosto 2012 -

..Arriva Saamiya, con la forza di chi cerca di cambiare, forse, il destino di una nazione, di dialogare col mondo, seppur schiva, seppur ultima, ma , comunque, coraggiosa.
..Arriva Saamiya, con la forza di chi cerca di mandare un segnale, di impegnarsi - tra strade sterrate - pur di veicolare l’emozione di una sguardo e l’amore per la vita.
..Arriva Saamiya, cercando quella libertà che è la dignità di un popolo.
..Arriva Saamiya, stremata, priva di ossigeno, senza quel numero e quella pettorina ma con le sole mani strette, proprie di chi, affogando nel sogno, perde l’ossigeno nel mare dell’indifferenza.
..Arriva Saamiya, ultima tra gli ultimi, sprofondando con una carretta del mare, desiderosa che quella zattera possa/potesse divenire la zattera di un popolo pronto a salpare verso il traguardo dei suoi 200 metri.
  ..Arriva Saamiya..

                                                                                      

                               ..ancora sola nell’ultimo sospiro.



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